Ricordo del Prof. Giulio Pizzetti, Socio Onorario AICAP

Ricordo del Prof. Giulio Pizzetti, Socio Onorario AICAP

Prof. Ing. Franco Levi

 

NeI corso dell’Assemblea Generale dei Soci, convocata a Spoleto, presso il Chiostro di S. Nicolò, il giorno 16 maggio in occasione delle Giomate A.LC.A.P. ’91 , è stato proclamato Socio Onorario per il biennio 1990-91 il prof. Giulio Pizzetti, recentemente scomparso.

La medaglia è stata consegnata alla gentilissima consorte, signora Giuseppina, nel corso di una breve e commossa cerimonia.

In tale occasione, il prof. Franco Levi così ha voluto celebrare il ricordo dell’Amico e Collega.

 

 

 

Per me, celebrare il ricordo di Giulio Pizzetti è, ad un tempo, facilissimo e quanto mai arduo. Facile perché, come disse Egli stesso, Ie nostre vite e le nostre carriere si sono “incrociate, appaiate, rincorse per cinquant’anni”; difficilissimo perché non posso sperare di eguagliare la benevolenza, lo stile, l’arguzia con cui Egli mi ha dimostrato amicizia ed affetto quando sono giunto al termine della mia carriera universitaria.

Vorrei comunque premettere che il mio discorso non sarà una “commemorazione” triste ma bensì una vivace rievocazione. Volendo ricordare l’indomito attaccamento alle vicende terrene del nostro Amico non lo si può trattare come “scomparso”, tutt’al più si può ammettere che Egli sia casualmente assente e che, in vece sua, si lascino parlare i Suoi scritti.

È quello che vorrei fare appoggiandomi, in particolare, allo splendido saggio intitolato “Maledetti Architetti, Benedetti Architetti”, che sono fierissimo di annoverare fra le testimonianze che mi sono state dedicate due anni fa. Un autentico capolavoro che si potrebbe qualificare come vero e proprio testamento spirituale se, per restare fedeli a quanto detto prima, non si preferisse designarlo quale profonda traccia di esperienza di vita e di pensiero rimasta nitida ed attuale come il ricordo che abbiamo di Lui.

Lo scritto cui mi voglio riferire delinea all’inizio f intento di riflettere sulle difficoltà incontrate da docenti – ingegneri chiamati ad operare fra le barbare tribù degli architetti.

“Caro Franco, tu hai insegnato alcuni anni in una Facoltà di Architettura – a Venezia – io ho svolto tutta la mia carriera di docente nelle Facoltà di Architettura in Italia ed all’estero. Forse non ti dispiacerà – al momento in cui entrambi usciamo di scena – scambiare qualche considerazione sulle esperienze di questa militanza e sugli ammaestramenti che ne abbiamo tratto”.

E subito traspare la volontà di. Pizzettí di non lasciarsi sopraffare da crisi di rigetto, di capire, di cercare proficue convergenze “D’accordo, non è così facile, io ci ho messo quasi una vita a capire, interpretare ed indirizzare alcuni aspetti ed atteggiamenti tipici dell’architetto, dello studente in Architettura, dell’interazione degli uni e degli altri con le discipline strutturali; a capire ed a far capire quanto errato e frustrante sia il considerare tali discipline come regole di calcolo da imporre ad organismi vivi, e quanto luminoso ed appagante sia invece il comprendere che esiste – viva e vitale – una “progettazione strutturale”, un campo enorme ed apertissimo dove razionalità ed intuizione, disciplina e fantasia possono dare magnifici frutti.

Ma l’”awersario” è veramente refrattario a tutte le aperture.

“lo personalmente, appartenendo alla schiera dei laureali ingegneri con una rilucente armatura di linguaggio matematico ed analitico, facevo ogni sforzo per leggere, documentarmi, capire alcunché di questo globo fumoso ed indefinito che si chiamava architettura. Restavo scandalizzato ed esterefatto di fronte alle interminabili giostre verbali, all’indifferenza con la quale gli architetti liquidavano principi che mi sembravano fondamentali, ed alla sussiegosa gravità con la quale – per contro – dissertavano in forma interminabile sui più plateali luoghi comuni: battezzando con etichette complicate ed altisonanti, movimenti e tendenze in continuo divenire e rincorrersi, e dei quali non riuscivo a capire un accidente.

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“E questi profeti del nuovo corso erano tutti genii e si incensavano a vicenda qualsiasi cosa dicessero e qualsiasi opera – mai costruita – annunciassero: e si libravano sempre ad altezze stratosferiche rispetto a quella barbara sottospecie progettuale che si chiamava “Ingegneria Civile” ed alla quale mi sentivo così orgoglioso di appartenere”.

Donde la violenta ripulsa:

“Maledetti Architetti!”

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A questo punto, altri si sarebbero rinchiusi nella loro coÍazza di malinteso raziocinio. Non certamente un umanista di vasto respiro come Giulio Pizzetti.

Con vera vocazione di pioniere, Egli non esita ad insistere nella sua avventura in terra nemica:

“Poi la vita mi ha portato, dal 1947 ad oggi, a confrontare il mio bagaglio di mentalità, capacità e tecnica progettuale con le attese di Facoltà di Architettura in America del Sud, in America del Nord, e con quella straordinaria istituzione – oggi purtroppo cancellata – che si chiamava “Hochschüle für Gestaltung” di Ulm. Debbo dire che furono esperienze straordinarie, forse perché mi trovai di fronte a mentalità vergini ma decisamente amanti del concreto – anche quando sconfinavano nella follia: soprattutto mi trovai di fronte – con mio enorme stupore – alla fiduciosa convinzione che certamente qualcosa di straordinario doveva scaturire dall’incontro fra la loro fantasia creativa e la mia offerta di razionalità e di lettura analitica”.

E, più avanti ancora:

“Quando ero “Visiting Professor” all’M.I.T. di Boston ebbi occasione di tenere a Raleigh (North Carolina) un breve corso sule tensostrutture. Prima di iniziarlo volli visitare coscienziosamente Ia “Raleigh Arena” ideata dall’architetto Nowicki, una costruzione che era iI prototipo e l’antesignano di tante tensostrutture: e mentre l’ingegnere di turno mi spiegava che tante cose erano andate storte, che la copertura presentava zone di instabilità aerodinamica nei punti di curvatura debole (tanto da aver richiesto stralli stabilizzanti) e che gli arconi non erano affatto auto equilibranti e qua e là poggiavano sulle stilate dei serramenti e che non si era seguita nessuna regola e che era stata ignorata tutta la precettistica dei dottori della legge: io pensavo che era pur sempre un’idea straordinaria, di quelle che fanno storia e che un colpo di genio così poteva riempire una vita, e magari l’avessi avuto io”.

Tutto ciò lo induce, gradualmente, a rimodellare il suo approccio all’insegnamento:

“Quell’episodio segnò – credo – una svolta decisiva nel mio atteggiamento di docente. Così al mio ritorno in Italia – alla Facoltà di Venezia prima ed a quella di Torino poi – cercai sempre di insegnare la Scienza e la Tecnica delle Costruzioni partendo dal concetto che gli allievi architetti – se opportunamente stimolati e disciplinati – possono dimostrare una sete ed una capacità creativa nella progettazione strutturale più ampia e geniale di quella degli ingegneri”.

Ed Egli è portato, nel contempo, ad individuare, in termini concreti, il rischio mortale che l’invadenza dell’informatica e del formalismo astratto costituisce per la libertà espressiva dei progettisti.

“Ed oggi, al constatare quali e quanti mezzi di guida ed aiuto alla progettazione siano a disposizione dei nostri Ingegneri ed Architetti, non posso esimermi da qualche considerazione un poco allarmata.

Vi sono i computers, le possibilità di accedere su scala internazionale ad ogni sorta di programmi C.A.D.: cosicché lentamente, ma inesorabilmente, i nostri giovani sono portati a ritenere che il progetto esista in quanto è possibile formulare un modello matematico di trattazione che un servitore infallibile tradurrà in proposte di fatto costruttivo”.

“Temo – in conclusione – che possano nascere atteggiamenti analoghi a quelli che – duemila anni fa – erano stati assunti dagli scribi e dai dottori della legge a fronte dei comandamenti e dei precetti contenuti nei biblici libri del Pentateuco”.

Da cui deriva la rivalutazione del ruolo della fantasia creatrice:

“Per fortuna ci saranno sempre i nostri amici architetti a rompere, a piantare un casino irritante di idee, metodi ed attere, a dirci che non siamo arrivati da nessuna parte, che niente ”perfectum est”, che bisogna sempre inventare qualcosa e rimettere tutto in discussione perché non ci si può e non ci si deve mai accontentare, non si deve mai cessare di cercare, perché questa è l’unica via per progettare, perché questa è – in definitiva – I’unica maniera di fare il nostro difficile mestiere di uomini”.

Donde infine il capovolgimento dell’anatema: Benedetti Architetti!

Le parole di Giulio Pizzetti testè rilette potrebbero bastare a delineare Ia singolarità della Sua carriera e l’originalità del Suo apporto culturale.

Ritengo tuttavia opportuno integrarle con alcuni cenni biografici atti ad illustrare meglio un curriculum veramente non comune. Il nostro Amico ha insegnato in diverse vesti: professore incaricato, poi di ruolo a Venezia e a Torino. È stato, a seconda dei casi: professore a contratto, lecturer, visiting-professor in una impressionante galleria di sedi prestigiose: Università di Buenos Aires, Università di Berkeley, Massachusset’s Institute of Technology, Hochschüle für Gestaltung di Ulm. Ha scritto memorie, conferenze, rapporti generali in ben cinque lingue, che parlava correntemente, sui più svariati temi: teoria e pratica del cemento armato, tecniche costruttive, fondazioni, grandi strutture e, soprattutto, filosofia delle forme strutturali. Ha integrato i suoi contributi tecnici con prestazioni professionali d’alto livello riguardanti i settori suddetti ed il restauro strutturale. Ed infine ha pubblicato alcuni volumi importanti.

Il primo che ricorderò è un peccato di gioventù che abbiamo compiuto insieme, prima in italiano, nel lontano 1947, sotto il titolo “Nuovi orientamenti di Scienza delle Costruzioni” poi in francese, in forma allargata, nel 1951, con l’intestazione: “Fluage, Plasticité, Précontrainte”. Quella volta il Nostro era dalla parte dei “dottori”. Scriveva di analisi strutturale e raccoglieva riconoscimenti per il carattere tutto sommato pionieristico degli argomenti. Ne sono la prova la ristampa fatta a nostra insaputa dall’editore italiano e l’accoglienza un po’ stupita, ma favorevole,  all’edizione francese che diffondeva oltr’Alpe l’approccio colonnettiano.

II vero “capolavoro” inteso in tutti i sensi del termine, realizzato da Pizzelti, è però, senza dubbio alcuno, il volume: “Principi statici e Forme strutturali”, che, con le sue ottocento pagine, costituisce un tentativo coraggioso e riuscitissimo per “afferrare l’origine delle cose”, favorendo una “sinergia intellettuaIe tra interpretazione funzionale del meccanismo statico-resistente e formulazione analitica,. Ogni capitolo, ogni pagina, talvolta ogni paragrafo, meriterebbe una citazione, sia per l’interesse specifico degli argomenti trattati, sia per la precisione dei riferimenti analitici, sia infine, e soprattutto, per la costante fedeltà all’impostazione intuitiva dei problemi. Qui mi limiterò a ricordare la chiave di lettura dell’insieme che scaturisce dal capitolo conclusivo nel quale si trova veramente condensata la “substantifique moèlle, di una sofferta avventura intellettuale. E lo farò citando alcuni passaggi cui sono particolarmente affezionato.

Ecco, ad esempio, la definizione del’intuizione “quale frutto di lenta stratificazione di studio e di esperienza”. O ancora la segnalazione della “pericolosa convinzione che Ia carica di legge insita nei principi statici abbia implicato un determinismo delle figure strutturali”. Oppure: “la tentazione di attenderci, dall’approccio scientifico alla tematica strutturale, dei cataloghi di forme strutturali passate in giudicato…”. O infine l’assioma secondo il quale: “… il rispetto del regime statico è condizione necessaria, ma niente affatto sufficiente, per Ia validità delle forme architettoniche”.

Anche così, staccati dal contesto, questi brani mi sembrano costituire dei veri e propri atti di fede, e mi è piaciuto rileggerli in questa sede per sottolineare la chiarezza e la portata dell’insegnamento che ne deriva.

A questo punto è forse scaduto il tempo che mi è stato concesso.

Eppure non posso chiudere senza accennare all’aspetto strettamente personale. Come non ricordare che Giulio Pizzetti è un “architetto”, (fra virgolette) simpatico, dal volto umano? Come posso io, in prima persona, dimenticare le sue manifestazioni di amicizia? Ed infine come non ricordare almeno di sfuggita, che, con la carissima consorte, Egli ha saputo guidare nella vita non soltanto cinque figli ma un numero quasi equivalente di nipoti della stessa generazione?

Il Prof. Giulio Pizzetti è scomparso a Torino nell’agosto del 1990